Credo sia un’ape, un bruco. Una farfalla. Non ne sono sicura. E’ bella, completamente in legno. E’ una matita particolare e la conservo da anni, insieme a tante altre matite mai usate, tenute così in un barattolo, per semplice collezione. Ma questa matita ha una storia particolare.
La sua storia, un po’ la mia. E’ arrivata che ero bambina, in una delle classiche e normali domeniche di noccioline. Che significato può avere una matita? Una matita serve a disegnare, tracciare linee, comporre. Non l’ho mai usata, ma se mi domando il perché di quel regalo, mi piacerebbe pensare che mi è stata regalata per scrivere qualcosa.
E’ arrivata, come dicevo, tanto tempo fa, in una normale domenica di noccioline. Come ogni bambino che ama volare con la fantasia, anche io, da bambina (e tutt’ora continuo), amo dare un nome a determinati momenti, e scene della vita quotidiana. E la normale domenica delle noccioline è una scena, che inconsapevolmente pensavo non sarebbe mai mancata nella mia vita. Ogni domenica era la normale domenica delle noccioline. Un citofono che squilla puntuale alle ore 12.00, il classico “chi è” e l’immancabile “sono io”. E non nascondo che quel “sono io” più volte mi ha anche infastidita, e non poco. Quasi mi faceva venir voglia di non alzarmi dal letto. Eppure, adesso, pagherei non so quanto per quel “sono io”. Anche solo una volta. Ma se gli errori del passato si potessero rimediare, avremmo tutti la vita che desideriamo. Ma non esiste un antidoto, non esiste una cura agli errori se non la comprensione degli stessi. Quella mattina, di tanti anni fa, quel “sono io” oltre ad essere accompagnato dalla consueta busta di noccioline acquistate dall’ambulante della domenica, portava con se questa matita. E nonostante i bambini in casa fossero tre, lui la diede a me. «Na, guarda che ti ho portato». E quel “na”, un ecco detto a modo nostro dialettale, quasi un obbligo nel nostro parlare comune. Un’esortazione a guardare il dono. Ricordo di aver guardato quella matita con tanta meraviglia e di averla mostrata subito a mia madre. Non posso parlare di me come una persona maniacalmente ordinata, ma nel mio tattico disordine ho una maledetta sete di controllo su tutte le mie cose, materiali e non. Devo sapere, devo mantenere il controllo, allungando lo sguardo e il pensiero sempre al di là del momento. E la prima cosa a cui pensai dopo aver ricevuto la matita, era come conservarla. Non l’avrei mai temperata, pur avendo potuto salvare il pupazzetto. L’avrei lasciata così. E così è rimasta. Saranno forse trascorsi 11-12 anni. Non ricordo di preciso dove l’acquistò, credo si trattasse di una sorta di mercatino di beneficenza, e lui era solito lasciare sempre qualcosa, così come era solito portare a noi qualsiasi dono ricevesse. Se con quella matita potessi tracciare una linea, o comporre un disegno, disegnerei tutte quelle scene della mia infanzia a cui ho dato un nome. A partire dalla domenica delle noccioline, e andando un po’ più indietro nel tempo, al pentolino con i cioccolatini. Ma quella era lei.
Ricordo quando entravo in casa, spesso accompagnata da mio padre, e quell’immagine è ancora impressa. Il primo step era staccarsi il maledetto e fastidiosissimo fiocco verde dal grembiule scolastico. Lasciato lo zainetto sul divano e la corsa in cucina. Su una sedia in legno e paglia c’era lei, col suo grembiule azzurro a fiori, lo scialle di lana sulle spalla, un sorriso stampato in faccia, e in mano un pentolino rivolto verso il caminetto. Nel pentolino tre gianduiotti, che io chiamavo “il ferro da stiro”. La leggenda all’epoca narrava che la befana passasse da casa di nonna, e lanciasse dal caminetto tre gianduiotti per me nel suo pentolino. Sarà che non ero puntuale io, o era veloce lei, ma io quella befana non l’ho mai incontrata. Ma nonna era pronta a raccogliere quei cioccolatini, e conservarli per me. Ogni giorno. Oppure, per spolverare un altro ricordo, la mela scomparsa. La mela scomparsa era quella mela che mai avrei mangiato, ma che nonna sbucciava lo stesso e poneva in un piatto. Ed io senza accorgermene, guardando la tv, ne mangiavo un pezzo per volta, finendola. E lei rideva. O il barattolo delle meraviglie, nella cristalliera. E’ ancora lì. Nonna in quel barattolo conservava le “mille lire”, che la domenica mattina rendevano ricca e intraprendente ogni bambina del paese.
E’ stato abbastanza difficile, negli anni, abituarsi all’assenza di questi momenti. Entrare in quella casa e trovare tutto com’era, senza nessun pentolino, senza nessuna befana passata a lasciare i gianduiotti, e senza nessuno pronto a sbucciarti una mela. E’ stato molto difficile, considerando che sono ricordi che forse conservo solo io. E ora come ora sicuramente, visto che il “sono io” della domenica di noccioline, non sa più chi è.
La consapevolezza è aumentata quando quella stessa tv, in quella casa, ha iniziato a trasmettere qualsiasi tipo di immagine senza più cognizione da parte di chi la guardava. E ora come ora, è molto difficile abituarsi ad una domenica che è diventata un comune giorno della settimana, in cui non aspettiamo più nessuno, e cosa più triste, dove nessuno più ci aspetta.
Come se i ricordi potessero diventare all’improvviso magneti da attaccare e staccare in ogni momento della giornata. A nostro piacimento. Come se le storie potessero essere scrigni, da poter riaprire quando abbiamo nostalgia, per rivivere un momento. Non sarebbe male d’altronde, ma vige la stessa regola degli errori. Il tempo è fatto per non tornare indietro. Possiamo fermarlo solo in un ricordo.