«Basta odio. Abbiamo perso tutti». Queste parole forti le ha pronunciate questa mattina il parroco di Vasto, Don Antonio Totaro, durante i funerali di Italo D’Elisa, il 22enne ucciso a colpi di pistola da Fabio Di Lello 34enne, vedovo di Roberta Smargiassi, rimasta uccisa otto mesi fa in un incidente stradale con il D’Elisa.
Questa mattina D’Elisa davanti a un Dio, Di Lello davanti al Gip.
Il parroco ha voluto puntare l’attenzione su quello che oggi è un fenomeno tristemente diffuso: l’odio sui social. Il fomentare odio, alimentare polemiche, una vera e propria caccia alle streghe che molto spesso tramuta il concetto di giustizia con quello di giustizialismo. Soffermandoci sul caso in esame, Italo D’Elisa, accusato di omicidio stradale, avrebbe subito un processo giudiziario. Si attendeva l’udienza preliminare. Italo nel frattempo però, ha subito un altro processo: quello mediatico. «Abbiamo perso tutti. Ha perso la città». La dura omelia del parroco, un messaggio che trasuda una verità atroce e che ha mietuto troppe vittime. Italo è una delle tante vittime della gogna. Non dimentichiamo Tiziana Cantone che recentemente si è tolta la vita a causa dell’ironia (ira) dei social media, strumento tanto utile quanto pericoloso; Luigi Paolini coinvolto in un’inchiesta sull’assenteismo in Comune a Sulmona, morto suicida poiché non ha retto il peso della pressione mediatica, e tanti altri ancora.
«Basta social. Torniamo a parlare tra noi. Senza conoscere abbiamo condannato» ha detto ancora il parroco, come riportato dal quotidiano Repubblica.
Dello stesso avviso è l’avvocato difensore di Italo D’Elisa, il quale ha dichiarato alla stampa che il giovane è stato vittima di una campagna d’odio che gli ha cambiato la vita.
Nonostante le parole del parroco e il dolore di tre famiglie distrutte, l’odio sui social continua a correre tra chi si esalta per la morte del 22enne e chi reputa il Di Lello un eroe, un “gladiatore”; tra chi pensa che tre famiglie siano state distrutte dall’odio e chi invece, da una giustizia lenta.
Basta ai processi mediatici dunque, e lo scorso 27 gennaio lo ha anche detto Giovanni Canzio, primo presidente della Cassazione.
Quello che talvolta sfugge però (e su cui vorremmo puntare l’attenzione), è che molto spesso chiedere giustizia sui social equivale a giustiziare. I casi sono tantissimi, i tribunali di Facebook non perdonano, e la gogna è difficile da sopportare.
Le condanne sui social, le etichettature incitano all’odio, alla violenza e spesso sfociano in manifestazioni violente ai danni dei loro protagonisti. Queste diventano ancora più pericolose quando il caso viene considerato più per la valenza mediatica che per quella giudiziaria, e in questo caso un esempio potrebbero essere le minacce e le aggressioni subite e denunciate dai militari indagati nel caso Cucchi e di cui abbiamo ampiamente parlato. Ma gli esempi sono tantissimi oltre quelli che abbiamo citato.
E a questo punto ci chiediamo… la differenza tra tortura e istigazione all’odio, alla violenza, al suicidio, umanamente, qual è?
Pregiudizio e social network. Ecco come si muore di “gogna”.