Vuole essere ascoltata affinché tutti possano capire l’amarezza che ha vissuto suo marito. E lo dice con la voce spezzata, fragile, quasi singhiozzante. E’ la voce del dolore quella, un dolore che nonostante gli 11 anni trascorsi, la vedova dell’ispettore di Polizia Filippo Raciti non ha mai smesso di sentire dentro. E’ il dolore di una moglie, di una mamma, di una vittima. Perché vittima è anche chi resta e porta dentro quell’amarezza che non conoscerà mai fine e che, sempre più, è alimentata dal senso di sconfitta di chi ha subito l’imposizione della morte di una persona cara, divenendo vittima nuovamente. Questa volta dell’ingiustizia.
Perché è così che si può definire la pronuncia del Tribunale nei confronti di Daniele Micale, uno dei responsabili della morte di Raciti, condannato a 11 anni con l’accusa di omicidio preterintenzionale e al quale è stato concesso il regime di semilibertà dopo aver scontato appena cinque anni in carcere. A detta del Tribunale il provvedimento serve a reintegrare il Micale nella società civile. Lo stesso, infatti, potrà uscire nelle ore diurne per lavorare come cassiere in un supermercato per poi fare rientro in carcere la sera.
La vedova Raciti, Marisa Grasso, ha espresso la sua amarezza nel corso di una conferenza stampa, organizzata dal Sindacato Autonomo di Polizia (Sap) tenutasi presso la sala “Caduti di Nassiriya” del Senato della Repubblica.
“Oggi Filippo avrebbe compiuto gli anni – ha detto – ma non è qui con noi, e parlo io per lui”.
Marisa Grasso racconta il suo dolore e il suo vissuto. Il dolore del famigliare di una vittima, un aspetto molto importante del quale quasi mai si tiene conto nel momento in cui viene comminata una pena, perché si condanna qualcuno per aver commesso un omicidio, tralasciando però quelle che sono le conseguenze per i suoi congiunti, quello che è il dolore della sua famiglia che continua a rivedere quelle immagini processo dopo processo, anno dopo anno, nella vana speranza di un “sia fatta giustizia” sempre più lontano e scarno.
“Quando ho visto quello che era il cadavere di mio marito, in obitorio, senza divisa, credevo di impazzire per il dolore – dice Marisa Grasso – ed è proprio per questo dolore che non posso accettare leggi ingiuste nei confronti dei poliziotti e dell’amarezza delle loro famiglie. L’assassino di mio marito è in semilibertà per lavorare come cassiere in un supermercato – continua – io ho diritto di sapere quale sia questo supermercato, perché devo evitare questa immagine a me stessa, ai miei figli, a mia madre, a mia suocera”.
Marisa Grasso ha conosciuto la vita del poliziotto attraverso il suo matrimonio. “Pensavo che il mio matrimonio sarebbe stato semplice – dice – ma non è stato così”. Marisa ha fatto suoi i disagi, le amarezze, le difficoltà del poliziotto, fino a quel 2 febbraio 2007, quando suo marito Filippo Raciti non ha più fatto rientro a casa.
“Negli anni c’è stato un aumento voluto di violenze – dice la donna – e non è accettabile. La legge deve tutelare chi ci tutela, deve tutelare le Forze dell’Ordine”.
Chiede più tutele Marisa Grasso, per le famiglie delle vittime e per le Forze dell’Ordine. Non si può abbandonare chi rischia la propria vita per la nostra sicurezza. Non si può lasciare che chi uccide un servitore dello Stato, gettando nella disperazione la sua famiglia, non sconti la pena nella sua interezza. È un oltraggio alla memoria, un oltraggio all’istituzione. L’ennesimo dolore per chi ha dovuto trovare la forza di accettare una realtà che non era la sua: quella del vuoto, della disperazione. Quella di Marisa Grasso, che si chiede se il sacrificio di suo marito, morto con la divisa cucita addosso, non sia stato vano.