Una storia questa, di cui i giornali parlano poco e niente, forse perché mettere al rogo due agenti di polizia penitenziaria accusati da chi, a sua volta, è accusato dell’atroce delitto di Pamela Mastropietro, non renderebbe bene a livello mediatico. Un circuito in cui, la divisa è quasi sempre criminalizzata, al di là di fatti accertati o meno, mentre il detenuto, colui che è in custodia dello Stato, viene santificato.
Spacciatori martiri e studentesse tossiche
Ebbene sì, succede nell’Italia dei nuovi martiri, di spacciatori che vanno in chiesa a scambiarsi il segno di pace con la vecchietta, poi vengono arrestati in flagranza di reato, muoiono per cause ancora al vaglio della Magistratura, mentre i giudici dei social hanno già sentenziato. Stato assassino, divise criminali.
La tattica Antipolizia
In questo caso forse è diverso. Purché sia importantissimo preservare la presunzione di non colpevolezza, cosa che la famiglia di Pamela Mastropietro sta facendo con una dignità encomiabile, nonostante alcune ammissioni di Innocent Oseghale, il nigeriano trentenne accusato di aver ucciso e fatto a pezzi la giovane studentessa romana per poi abbandonarne i resti in due trolley, santificarlo agli occhi dell’opinione pubblica evidentemente non funzionerebbe. Però la tattica da mettere in pratica per passare da accusato a vittima è sempre la stessa. Accusare gli uomini in divisa.
La confessione
Il 3 febbraio 2018, presso la Casa Circondariale di Ancona Montacuto, tre agenti di polizia penitenziaria – come leggiamo negli atti in nostro possesso – chiedono ad Innocent Oseghale se avesse bisogno di qualcosa. Lo stesso cerca di dire qualcosa, ma fa capire di non saper parlare italiano. A quel punto il poliziotto gli porge una penna e un pezzo di carta, sul quale Oseghale scrive “Desmond” e un indirizzo (Lucky Desmond è uno dei ragazzi accusati insieme ad Oseghale e poi prosciolto). Essendo difficile comprendere cosa Oseghale volesse effettivamente comunicare, il poliziotto chiede l’ausilio di un suo collega madrelingua inglese. La domanda che viene posta ad Oseghale è se questo Desmond fosse suo complice. Oseghale avrebbe in un primo momento risposto che Desmond fosse l’autore dell’omicidio, in un secondo momento poi intende una complicità. A quel punto Oseghale chiede di essere interrogato dal PM alla presenza del suo avvocato e in quella stessa occasione, avrebbe ribadito di aver commesso l’omicidio insieme a Desmond.
“La Polizia mi ha picchiato”
I poliziotti hanno redatto una relazione, comunicando il tutto al PM. Il giorno seguente, 4 febbraio 2018, Oseghale viene interrogato dai PM Giovanni Giorgio e Stefania Coccioli. Gli stessi gli mostrano il bigliettino consegnato alla Polizia Penitenziaria con il nome “Desmond” e l’indirizzo. Oseghale riconosce quel biglietto, conferma di averlo scritto lui, ma aggiunge un particolare: “Ho dato il biglietto e però l’ho scritto perché sono stato percosso dagli agenti penitenziari”.
Dopo quella dichiarazione, su richiesta del legale, l’interrogatorio viene sospeso per cinque minuti e poi ripreso con Oseghale che non vuole più rispondere alle domande, e dice solo che la droga non l’ha ceduta a Pamela ma Desmond.
Referto che smentisce
Alla luce di quelle dichiarazioni viene immediatamente disposto un accertamento medico per Oseghale, il quale si dichiara vittima di percosse. Effettuato l’accertamento, il referto dissipa ogni dubbio: “Dall’esame obiettivo non si evidenziano tracce di recenti lesioni e/o escoriazioni”.
Una falsa accusa, dunque. La conseguenza è prevedibile, ma no, non è successo. La Procura non ha denunciato Innocent Oseghale per calunnia e questa storia, si sperava finisse probabilmente nel dimenticatoio, a dispetto invece di tanti casi che vedono coinvolti appartenenti alle forze dell’ordine, prontamente dati in pasto ai media e ai giudici da social network e, senza considerare, tra l’altro, i numerosi suicidi che avvengono tra le divise, in ultimo quello dell’agente penitenziario che si è tolto la vita di recente nei pressi della casa circondariale di Sanremo.