Site icon Elena Ricci

E i ritratti non si fanno solo a matita

Si arricciava i capelli con le mani mentre parlava. Questo faceva notare quanto fosse nervosa, presa dall’argomento e pronta a rispondere. Non sapeva aspettare. Aveva la cattiva abitudine di piantare lì le parole nei momenti più assurdi. Ecco, le piantava lì, spiazzava se stessa, e taceva poi in quei momenti in cui avrebbe dovuto parlare. Era senza parole, apparentemente, perché dentro ne aveva di cose da dire, ma non lo faceva per paura della reazione di chi aveva di fronte. Allora decise di scriverle. Tante parole lasciate ovunque, affinché arrivassero a quella testa. Perché nell’incertezza si parla di testa e non di cuori. I cuori non sono mai incerti, sanno sempre quello che vogliono davvero, ma agiscono prima della mente. A quest’ultima l’impulso arriva sempre in ritardo. Un po’ come le giraffe di Stefano Benni, che hanno il cuore lontano dai pensieri, si sono innamorate ieri e  ancora non lo sanno.
Ecco, forse lei era una giraffa di quel tipo. Con il cavo della mente scollegato dal cuore. E lui più che una giraffa era una gazzella. Una gazzella impaurita dalla ferocia della tigre. Il tutto nella jungla della confusione. Scegliamo sempre l’animale meno pericoloso da dominare sentendoci leoni. E in realtà siamo tutti gazzelle, bisognose di qualcuno che venga a salvarci. Ci facciamo scudo con le metafore, perché non abbiamo il coraggio di ammettere a noi stessi come stanno le cose.
Qualcuno mi diceva tempo fa: “Beati voi che scrivete. Avete sempre le parole giuste al momento giusto. Non è difficile per voi dire ciò che provate”.
Niente di più sbagliato. Noi scriviamo proprio perché non abbiamo il coraggio di parlare, allora doniamo le nostre parole a qualsiasi foglio, a qualsiasi cielo. Lasciamo i nostri amati in ogni angolo di testo. E vi posso assicurare che nel diario di chi scrive vivono persone oltre le parole. Vivono con le loro abitudini, i loro modi di dire. Vivono le loro espressioni del volto, vivono i loro profumi. Non basta saper leggere, a volte. E i ritratti non si fanno solo a matita. Lei ad esempio riusciva a disegnarlo raccontando. Con le parole. Ne tracciava le linee dopo ogni punto e i respiri dopo ogni virgola. Conosceva a memoria le sue pause. Però parlava al momento sbagliato e taceva al momento giusto. Quando glielo si faceva notare, ecco che allora scriveva. “Che matta” pensò, prima ancora che il cuore inviasse l’impulso alla testa. Dopodiché capì che la sua non era follia.
Ecco. Se solo fosse possibile accorciare quella distanza tra il petto e la fronte… basterebbe e conterebbe sempre la prima parola. Appariremmo ciò che dentro urliamo di essere. Veri.

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